Moriremo berlusconiani?

(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – La storia che ci ripetiamo da oltre mezzo secolo rischia d’essere fasulla. Non moriremo democristiani (forse). Ma berlusconiani (poi vedremo se è meglio, o peggio).

Cominciamo ad avere un mucchio di indizi.

C’è una Moleskine piena zeppa di appunti. C’è più Berlusconi adesso di prima. C’è che il prossimo 12 giugno dovremo ripetercelo, e convincerci, che è davvero andato via da un anno.

Il Cavaliere — oppure, a scelta, tra amore sfrenato e abissale disprezzo: «il Caimano», «il Dottore», «Sua Emittenza», «lo Psiconano», «Papi», «Zio Silvio» — insomma lui puntava all’immortalità. Però è comunque un eccellente risultato venire continuamente richiamato dal mondo ultraterreno, ed essere citato, invocato, rimpianto dentro lampi di efferata nostalgia. Anche quando meno te lo aspetti. Tipo che stai lì a guardarti Francesca Fagnani nel suo Belve, su Rai2, e dopo la Bertè e la Bruni, di botto, sullo sgabello si siede Salvini. Il Berlusca lo chiamava «ragazzotto». La Fagnani, perfida, glielo ricorda. Poi, zampata: «Le manca Berlusconi?». Salvini, con la faccia da buono: «Tanto…». Uno pensa: ma come tanto? Ti chiamava ragazzotto. Salvini, però, prosegue struggente: «Mi manca a livello personale, mi manca a livello di telefonate, di chiacchierate sul Milan, sull’amore, sui figli, sulla famiglia, sul giardinaggio…».

In una delle foto più ripubblicate, c’è lui, il Cavaliere, al centro del surreale campo di tulipani gialli e rossi, tulipani a perdita d’occhio, nella villa di Arcore. Una passione diventata leggenda. Come la macchia mediterranea a villa Certosa, che curava personalmente (o, almeno, questo facevano credere a noi cronisti, quando stavamo lì, fuori dal cancello, sotto il sole a palla d’agosto). Quel pezzo di Sardegna — definita, per comodità, villa — è ora in vendita per una cifra che oscilla tra i 400 e i 500 milioni di euro. Articoli dettagliati raccontano che il resto delle proprietà immobiliari, cospicua porzione della poderosa eredità, sono invece già state divise: a Barbara va Macherio, Marina prende villa Campari, Pier Silvio dovrebbe tenere villa Feltrinelli, a Roma, sull’Appia Antica. Figli pragmatici, discreti, eleganti. Inevitabile, ogni tanto, compare il paragone con le vicende giudiziarie della famiglia Agnelli.

Quelle private del Cav, e con esse l’avversione di carattere morale ed estetico di una certa sinistra nei suoi confronti, sono invece abbastanza evaporate. Adesso ci ricorda tutto Andrea Minuz in C’eravamo tanto odiati, breve storia dell’antiberlusconismo, un pamphlet croccante e allegro pubblicato da Il Mulino, contenente tutta la bolgia di sospetti e accuse, molte concrete e moltissime però anche tarocche, dove il vero era talmente incredibile e talvolta scandaloso da sovrapporsi alla menzogna, tra condanne e assoluzioni (tante), in un frullato mitologico di evasioni fiscali e truci stallieri, le rutilanti amicizie con le Olgettine, tra cui «una nipote di Mubarak», e il mercato dei senatori.

L’altro giorno intervistano Antonio Razzi: «Era unico. Faceva innamorare». Fabrizio Cicchitto, a Rep: «Per dirla con un paradosso: l’amicizia tra Berlusconi e Putin era un rapporto omosessuale di tipo mentale». Poi, precisa: «C’era reciproca ammirazione. Silvio ammirava in Putin l’uomo forte. Putin vedeva in Silvio l’uomo di successo». Netflix, giovedì prossimo, manda in onda la prima puntata della docuserie Il giovane Berlusconi. Nelle prime immagini del trailer, si vede Mike Bongiorno che intervista un giovanissimo Silvio (pieno di capelli: all’epoca erano ancora tutti suoi, poi li avrebbe trapiantati, anni luce avanti al ministro Francesco Lollobrigida). Domanda: «Tu ti occupi bene di tante cose… Editoria, cinema, calcio, costruzioni… Come fai, non lo so… Ma non ti è mai venuto in mente di entrare in politica?». Risposta secca: «Io sono un uomo del fare, quindi quello che so fare bene è l’imprenditore».

Quanti anni sono passati? Però la vertigine non è finita. Per dire: a L’aria che tira arriva la vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli. Posa sul tavolo una cartellina e, un po’ ironica, un po’ no, dice: «È quella in cui il “Dottore” teneva i documenti. Volete toccarla?». Ammetto di essermi alzato e di aver voluto vedere da vicino la reliquia (era di pelle, un po’ lisa, ma normale. E quando sono tornato al mio posto, ho pensato: sei scemo che ti ci alzi pure?).

Si parlava di politica estera, nella puntata: e, ovviamente, c’è stato un riferimento al Cavaliere. Ogni occasione è buona. Ogni giorno, un titolo sui giornali. Se scrivono il suo nome al Famedio di Milano, il pantheon dei cittadini che hanno dato lustro alla città. Quando Tullio Ferrante, sottosegretario al Mit, dice: «Il ponte sullo Stretto, antico progetto di Berlusconi, sarà realtà» (con Salvini parlavano di giardinaggio e Milan). Poi vince il Monza. E il suo allenatore, Raffaele Palladino, commosso: «Dedichiamo il successo a Berlusconi».

Dediche, visioni mistiche (il ministro Paolo Zangrillo: «Lui, incontestabilmente, c’è»), lezioni (Matteo Renzi: «Mi consigliò di non vestirmi da comunista»), ringraziamenti (Marinella, quello delle cravatte che il Cav regalava a mazzi: «Ci ha resi famosi nel mondo»), ex fidanzate (la Pascale, che ormai si sente una via di mezzo tra Virginia Woolf e Gertrude Stein) e la quasi vedova Marta Fascina, cento milioni di lascito e centinaia di giorni d’assenza collezionati a Montecitorio (l’uomo del fare non sarà molto contento, eh).

Visto che siamo arrivati dalle parti del Parlamento: l’eredità politica continua ad avere strascichi importanti. Marina, nella prefazione al nuovo libro di Paolo Del Debbio, svela il testamento ideologico che il padre le consegna due giorni prima di morire, nella camera dell’ospedale San Raffaele, e ne difende il ricordo polemizzando con l’ex direttore de La Stampa, Massimo Giannini. Ogni tanto, c’è uno che spiffera: «Marina ha deciso: tocca a lei». Ma ultimamente hanno ripreso a girare voci su Pier Silvio. «Dipende da lui. Noi siamo comunque favorevoli», dice Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e capo in carica di Forza Italia, eletto segretario per alzata di mano all’ultimo congresso, tra grida di evviva e sondaggi entusiasmanti che, per le prossime elezioni europee, annunciano la possibilità di sorpassare la Lega.

Tutto questo berlusconismo o scioglie il sangue, o si muove nello stomaco come un ragno gigante. Davvero dobbiamo parlarne ancora? Sì, perché è cronaca battente. Come quando la Procura di Roma chiede 8 anni per l’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, imputato nel processo legato all’acquisto della famosa casa di Montecarlo, e subito, tra noi: «Ti ricordi di quando Fini, con il ditino alzato, urlò a Silvio: che fai, mi cacci?». Ingranaggi invisibili scatenano ricordi in dissolvenza su un dibattito storiografico che non è ancora nemmeno cominciato. Perché lui è ancora qui. Il suo fantasma si aggira a Palazzo Grazioli, mirabolante residenza romana dal 1996 al 2020. Niente più Dudù e putti dorati alle pareti, o quei lampadari sempre accesi come a Versailles. Tutto ristrutturato per la moderna sede dell’Associazione Stampa estera. Poi però un pomeriggio due giornaliste scoprono, dietro all’unica vecchia libreria rimasta, un passaggio segreto.

Ci consenta, Cavaliere; a chi serviva?