Società schermo, un sofisticato cartello di imprese fittiziamente intestate a terzi compiacenti attraverso il quale “hanno eluso gli effetti delle interdittive”, proteggendo il proprio patrimonio dietro plurime strutture societarie per sottrarlo alle misure di prevenzione, utilizzando le stesse aziende per auto riciclare i propri profitti. Il gup del Tribunale di Catanzaro Matteo Ferrante spiegava in oltre ottanta pagine le motivazioni che hanno portato a condannare il gruppo imprenditoriale Lobello nell’ambito dell’operazione Coccodrillo, escludendo l’aggravante mafiosa, disponendo la confisca di una serie di società, beni aziendali e somme di danaro.
Il gup ha condannato Giuseppe, detto Pino Lobello, a 8 anni e 10 mesi di reclusione (il pubblico ministero della distrettuale ha invocato 12 anni), mentre ha condannato Antonio e Daniele Lobello, a 4 anni, 8 mesi di reclusione e 8 mila euro di multa, (il pm aveva chiesto per ciascuno 8 anni di reclusione).
Il giudice si è soffermato sulla posizione di Giuseppe Lobello condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, quattro vicende di trasferimento fraudolento di valori, due episodi di auto riciclaggio e una condotta estorsiva.
L’esistenza del concorso esterno
Il gup delinea l’identikit di Giuseppe Lobello, definendolo un uomo da circa 20 anni orbitante stabilmente attorno alle famiglie mafiose del territorio cutrese. Una figura imprenditoriale estramamente contigua agli ambienti mafiosi radicati nel territorio, grazie alla cui protezione si è imposta ed è rimasta nel mercato. “Va rimarcato che i collaboratori di giustizia sentiti evocando la figura di Lobello ne hanno tutti parlato con declinazioni differenti, come di persona in rapporti di stretta e abituale prossimità a personaggi di rilievo del clan Arena e Mazzagatti, all’unisono nel riferire che era un imprenditore protetto e ciò fin dai primi anni 2000”. Per il gup non c’è dubbio che Giuseppe Lobello abbia avuto relazioni interpersonali non occasionali con le cosche di ‘ndrangheta o quanto meno con i suoi vertici e che questi rapporti attenessero soprattutto alla sfera economica: “per continuare a lavorare in un contesto socio-economico fortemente permeato dall’economia illegale, deve ritenersi sia sceso a patti con la ‘ndrangheta, garantendo un sostegno economico, guadagnandosi “la protezione” o la “sponsorizzazione” per le sue attività di impresa. Da un lato le cosche avrebbero avuto il vantaggio di avere un imprenditore di riferimento nel settore edile e dall’altro l’imputato il beneficio della sua ascesa economico-imprenditoriale nelle zone controllate dalle ‘ndrine. Secondo il giudice la circostanza poi che l’imprenditore fosse destinatario di condotte estorsive da parte delle associazioni mafiose, attraverso il pagamento delle mazzette, “non vale a qualificarlo come imprenditore vittima. E ciò quand’anche nella fase inziale il pagamento del pizzo fosse stato imposto mediante il ricorso alla violenza e alla minaccia tipiche del metodo mafioso”. Una circostanza, questa che non esclude la successiva evoluzione del rapporto reciprocamente utilitaristico. In sostanza un imprenditore “colluso” che pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale avrebbe instaurato con la cosca, per libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi, consistenti per Lobello nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi o utilità.
L’aggravante mafiosa non c’è
Secondo le ipotesi di accusa il trasferimento fraudolento di valori sarebbero state finalizzate oltre ad assicurare a Giuseppe, Antonio e Daniele Lobello la conservazione del loro patrimonio, al riparo da possibili misure di prevenzione anche ad agevolare consorterie criminali di stampo mafioso. Un assunto questo per il gup che non può essere condiviso. “Non ci sono elementi concreti dai quali desumere che le intestazioni fittizie fossero dirette ad agevolare gli interessi delle consorterie. Non può dirsi dimostrato il finalismo agevolativo, non essendo emerse né la strumentalità dell’iniziativa agli interessi della cosca, né un qualche coinvolgimento anche indiretto dei suoi membri, né che l’intestazione fittizia fosse avvenuta per favorire il clan Arena. Soprattutto per il giudice non è dimostrato che il rafforzamento della cosca fosse l’obiettivo degli imputati, principali beneficiari dell’iniziativa nell’operare il trasferimento fraudolento di beni
Le società e i soldi confiscati
“Le società schermo già in sequestro costituiscono beni di cui i condannati hanno l’effettiva disponibilità perchè intestati a prestanome. Esiste il concreto ed attuale pericolo che la libera disponibilità delle società possa agevolare la commissione di altri reati, attraverso un sistema nel tempo esteso a plurime aziende senza soluzione di continuità dal 2007 in avanti”. Per il gup si pone la necessità di sottrarre in maniera definitiva agli effettivi titolari e ai compiacenti amministratori fittizi la gestione societaria per evitare operazioni di depauperamento patrimoniale, “già poste in essere abitualmente con distrazione dei fondi contenuti nei relativi conti correnti”. Ecco perché ha disposto la confisca delle aziende Strade Sud Srl con sede a Simeri Crichi, intestata a Caterina Garcea e relativo complesso dei beni aziendali, il capitale sociale della Marina Cafè srls, con sede nel quartiere lido di Catanzaro, intestata ad Anna Rita Vigliarolo e relativo complesso dei beni aziendali; Consorzio Stabile Genesi e relativo complesso aziendale, Consorzio Stabile Zeus con sede legale a Simeri Crichi e relativo complesso di beni aziendali, revocando il sequestro della società Trivellazioni Sud srl , rispetto alla quale non si è giunti a sentenza di condanna “stante l’intervenuta prescrizione delle condotte penalmente rilevanti”. Il giudice ha inoltre disposto la confisca obbligatoria delle somme costituenti provento del reato di auto riciclaggio in misura pari ai profitti conseguiti dai Lobello attraverso i lavori effettuati con lo schermo di società prestanome. In particolare ha ordinato la confisca di denaro o in mancanza di beni mobili o immobili nella loro disponibilità fino al raggiungimento degli importi di 62.293 euro nei confronti di Giuseppe Lobello e 961.279,12 euro per Antonio Lobello, Giuseppe Lobello e Daniele Lobello in solido tra di loro. FONTE: Calabria 7