Possiamo piacere o non piacere: c’è chi apprezza quello che scriviamo e chi no, e ci sta. Fa parte del nostro lavoro. Questo lo abbiamo sempre accettato, com’è giusto che sia. Del resto, quando si scrive di intrallazzi, denaro e potere, con nomi e cognomi, è inevitabile che chi finisce sulle pagine del nostro giornale nutra del risentimento nei nostri confronti. Risentimento che, ovviamente, si trasmette anche a parenti, amici, simpatizzanti, tifosi… e va bene così. Ognuno simpatizza per chi gli pare.
Siamo consapevoli di non essere simpatici a tutti. E per questo comprendiamo il risentimento da parte dei familiari dei personaggi che finiscono sul nostro giornale: l’affetto per un parente può giustificare anche questo. E lo accettiamo. Capiamo anche amici, sostenitori, tifosi. Cosenza è una piccola città, dove l’economia – oltre a quella illegale legata allo spaccio di cocaina e al riciclaggio – gira nei circuiti della politica e delle istituzioni, e avere un amico in quell’ambito fa sempre comodo. Perciò non ci meravigliamo di chi, per necessità, prende le distanze da noi. Anche quando scriviamo verità storiche scolpite sui muri della città. Sappiamo bene che, per come funzionano da sempre le cose a Cosenza, per molti la scelta migliore è stare dalla parte di chi può garantire qualcosa. E non siamo certo noi. Non li biasimiamo. Siamo cosentini anche noi, e conosciamo bene la necessità – sociale ed economica – di legarsi a qualcuno: “stuartu o dirittu”, a Cusenza conviene avere qualche compare. Questo, finché la convenienza reciproca regge.
Di convenienze – economiche, sociali, professionali, politiche – Cosenza è piena. Per questo non è difficile trovare sostenitori: più è alto lo status sociale, istituzionale o politico del personaggio finito sulle nostre pagine, più amici e sostenitori troverà in città. Specie se è uno che fa girare “a pila”. E in una città come Cosenza, dove la possibilità di guadagnare – onestamente o disonestamente, ognuno secondo la propria attitudine – dipende da quanto sei disposto a far finta di niente, di come fa girare la “pila” il compare non gliene frega niente a nessuno. Lo capiamo: in questa città, in un modo o nell’altro, si deve campare. E dalla scelta dei “giusti amici” può dipendere la propria esistenza. Capiamo tutto questo, e accettiamo il risentimento: sia quello che nasce dagli affetti, sia quello che nasce dagli interessi.
Quello che non capiamo è chi, tra tifosi, sostenitori, amici, pur di mettersi in mostra davanti al proprio compare finito sulle nostre pagine, si presta a commettere abusi, soprusi, e violenze nei nostri confronti. Che è esattamente quello che è accaduto al direttore Gabriele Carchidi ieri pomeriggio, mentre a piedi si recava in redazione. Senza alcuna ragione, viene bloccato in malo modo da ben due volanti della squadra volanti della questura di Cosenza. La richiesta è quella dei documenti. E qualcuno, giustamente, potrebbe dire: “E che c’è di strano? Capita a tutti di essere fermati dalla polizia. Se non hai niente da nascondere, glieli dai senza fare storie”. Ed è giusto.
COSENZA, VI RACCONTO LA MIA DISAVVENTURA (https://www.iacchite.blog/cosenza-vi-racconto-la-mia-disavventura-con-i-miei-amici-poliziotti-della-squadra-volante/)
Quello che non è giusto in questa storia non è la legittima richiesta dei documenti, ma la squallida provocazione messa in atto dal capo pattuglia Amodio Umile che, di pattuglia in via degli Stadi, riconosce il direttore Carchidi e, per fargliela pagare per tutto quello che da tempo scriviamo su quello che succede in questura, decide di fermarlo con la scusa di identificarlo. È chiaro che non c’era nulla da identificare. Il capo pattuglia conosce benissimo il direttore: voleva solo provocarlo, metterlo in imbarazzo pubblicamente. Spera in una reazione del direttore, per costruire la scena che in questura tutti si aspettano: mettere le manette ai polsi a Carchidi.
È da tempo che certi sbirri cercano un pretesto. Non hanno gradito gli articoli che abbiamo scritto su tutto quello che succede in questura: dalla sottrazione di cocaina dai sequestri alla sparizione del denaro sequestrato ai parcheggiatori abusivi dal cassetto del dirigente; dai furti negli uffici fino alle talpe e ai ricattatori. Abbiamo scritto – e provato con tanto di documenti – di poliziotti che ricattavano il capo della Mobile, che indagava sul “sistema Cosenza”, su commissione dei compari politici. Abbiamo scritto di informative riservate sul voto di scambio politico-mafioso finite in mano a malandrini, uscite direttamente dagli uffici della questura. Abbiamo scritto di minacce tra poliziotti. Di strani rapporti tra agenti e narcotrafficanti. Di come sia diffuso l’uso di cocaina in questura. Abbiamo sindacato e criticato l’inerzia della questura verso narcos, politici corrotti e potenti imprenditori intrallazzati. Abbiamo scritto di dirigenti, questori, commissari, ispettori, e di come come hanno fatto carriera. Abbiamo scritto di come la questura sia gestita – più che dal senso del dovere – dal senso del favore. Abbiamo documentato e verbalizzato ogni cosa.
In ogni articolo scritto sulla questura abbiamo sempre precisato, e lo facciamo anche adesso, che la nostra non è mai stata una battaglia contro l’istituzione “questura”, ma contro chi la disonora. Così come abbiamo sempre specificato che la maggior parte di chi ci lavora non ha nulla a che fare con tutto questo. Ma neanche nulla fa per fermarlo. E nessuno, in questo senso, può dirsi innocente. Tutti sanno chi sono i tossici che lavorano alle volanti. Chi sono i ladri, i collusi, i corrotti, le talpe. La questura, in fondo, è un ufficio come un altro: i comportamenti strani prima o poi si notano. E rispetto a questo, tutti gli onesti hanno sempre voltato lo sguardo dall’altra parte. Nessuno ha mai preso provvedimenti, neanche quando le prove erano evidenti e inconfutabili. Corrotti, collusi, tossici, ladri e talpe sono sempre rimasti al loro posto.
Tutto questo sputtanamento non piace ai boss della questura, che vivono principalmente di immagine. E se c’è qualcuno che quell’immagine la offusca, va fermato. Ed è in quest’ottica che il capopattuglia Amodio Umile ferma il direttore. Vuole portare in premio ai suoi superiori – e ai colleghi finiti sulle nostre pagine – il trofeo “Carchidi”. Sta tutto qui il senso del fermo: non c’è nessun pericolo per la società nel passeggiare di Carchidi lungo via degli Stadi. Una situazione evidente al direttore, che risponde all’ennesima provocazione. Se il problema fosse stato, come dice il capo pattuglia, identificare un individuo ignoto e sospetto che si aggirava per via degli Stadi, quel problema, e questo bisogna ammetterlo, non esisteva: Carchidi non può dirsi certo un soggetto ignoto e sospetto, lo conoscono tutti. Compreso il capo pattuglia che lo ha fermato proprio perché lo conosce. Se fosse stato un normale controllo, avrebbero accertato l’identità in tre secondi e, verificato che non trasportava cocaina, armi o esplosivi, lo avrebbero lasciato andare. Ma non era questo l’obiettivo del capo pattuglia: a lui serviva un pretesto per mettergli le manette ai polsi e mandare subito la velina ai compari giornalisti. E c’è riuscito.
Finalmente: il trofeo Carchidi, trascinato con le manette ai polsi in questura. Missione compiuta. Il capo pattuglia merita un premio. Per i compari della questura è come se avesse catturato un pericoloso latitante. O sventato un attentato. Perché in questura non lavorano per la sicurezza dei cittadini, ma pensano tutto il giorno a come fermare noi. Noi che scriviamo non solo di loro, ma soprattutto dei loro compari, a cui – in un modo o nell’altro – devono riconoscenza. Carchidi, e su questo si può essere d’accordo o no, ha reagito a questo. Non alla richiesta dei documenti. Quello che è successo a Carchidi è quello che è successo a tanti cosentini che non si allineano, o a chi si mette di traverso, e gli esecutori materiali sono sempre gli stessi: sbirri che fanno i compari, compari che fanno i provocatori, e provocazioni spacciate per legalità… chista è Cusenza. E nessuno lo può negare. Amici, sostenitori, tifosi e parenti compresi.
Michele Santagata