Lo scambio droni per petrolio fra Cina e Libia imbarazza l’Italia

(LUCA GAMBARDELLA – ilfoglio.it) – Il sequestro a Gioia Tauro di due carichi di armi partiti dalla Cina e diretti in Libia svela un complesso schema di traffici illeciti smascherato dai servizi segreti americani e che coinvolge direttamente l’Italia. L’inchiesta aperta dalla procura calabrese di Palmi conferma inoltre come uno dei principali interlocutori dell’Italia in Libia, Khalifa Haftar, sia armato e concluda affari illeciti non solo con i russi, ma anche con i cinesi. La vicenda si articola in più fasi – dalla pianificazione alla consegna finale delle armi, passando per la transazione economica fra libici e cinesi – e parte da lontano, da Vancouver, in Canada,  nel 2018. E’ allora che Fathi Ben Ahmed Mhaouek e Mahmud Mohamed Elsuwaye Sayeh, cittadini libici e all’epoca funzionari dell’Agenzia internazionale dell’aviazione civile delle Nazioni Unite, si adoperano per realizzare un affare pericoloso e inedito fra la Libia e la Cina: scambiare droni cinesi in cambio di petrolio libico a prezzo scontato. I due, sfruttando l’immunità diplomatica da funzionari dell’Onu, contattano potenziali intermediari cinesi, società di consulenza e funzionari del governo.

I servizi segreti americani però li scoprono prima che i libici riescano a concludere l’affare e mandano una segnalazione alla polizia canadese. Il 23 aprile, i due funzionari dell’agenzia dell’Onu vengono arrestati a Vancouver con l’accusa di cospirazione. Il 61enne Mhaouek ora è in libertà provvisoria, ha pagato 10 mila dollari di cauzione, indossa un Gps alla caviglia e ha restituito il passaporto alle autorità canadesi. Invece il suo presunto complice, Sayeh, è ancora oggi in fuga e su di lui pende un mandato d’arresto dell’Interpol. Andrew Barbacki, legale di Mhaouek, chiarisce al Foglio che il suo assistito è accusato solamente del traffico di petrolio e che “le accuse che riguardano la vendita dei droni invece fanno capo a Sayeh”. “L’idea dei due libici era di vendere milioni di barili alla Cina senza che nessuno se ne accorgesse”, aveva raccontato alla stampa Charles Poirier, portavoce della polizia canadese. Difficile che un’operazione tanto complessa, che avrebbe fruttato milioni di dollari, facesse capo solamente a loro due. Al Foglio risulta che un terzo libico, la cui identità non è stata ancora resa pubblica, sarebbe coinvolto. “Era lui la mente del gruppo e non è escluso che si tratti di qualcuno di molto vicino al clan di Khalifa Haftar”, rivela una fonte che preferisce restare anonima.

Se la fase di pianificazione dell’affare si svolge in Canada, le successive prendono forma altrove, fra la Cina e l’Italia. Attenzione alle date. Il 30 aprile, una settimana dopo l’arresto dei due libici a Vancouver, una nave portacontainer salpa dal porto cinese di Shenzen. La MSC Arina, che batte bandiera panamense, fa un viaggio lungo, si ferma a Singapore, circumnaviga l’Africa passando per il Capo di Buona Speranza ed entra finalmente nel Mediterraneo attraverso lo Stretto di Gibilterra. Qui fa altre due tappe in Spagna – a Barcellona e Valencia – per  poi dirigersi a Gioia Tauro. A questo punto, è il 18 giugno, la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Dogane sono allertati dagli americani su un carico sospetto a bordo della MSC Arina.

Gli italiani fanno un’ispezione e scoprono che, mascherati da componenti di pale eoliche, ci sono pezzi della fusoliera di due droni militari. Si tratta verosimilmente di due Wing Loong 2, costruiti dalla Chengdu Aerospace Corporation, una compagnia di stato cinese che rifornisce le forze armate di Pechino. Le informazioni degli americani sono confermate: il carico era diretto nell’est della Libia, a Bengasi per la precisione, ed era atteso dal clan di Haftar in violazione dell’embargo alle armi imposto dalle Nazioni Unite. I Wing Loong 2 sono da sempre un’arma molto apprezzata da Haftar. Rispetto ai Bayraktar di fabbricazione turca e usati dall’ovest, i droni cinesi hanno un’efficacia inferiore che però è compensata da un costo più contenuto. Fino a qualche anno fa erano stati gli Emirati Arabi Uniti a fornirli al generale di Bengasi, spesso modificandoli montando sistemi ottici israeliani e di gestione dei dati satellitari della Thales. Ma da quando gli Emirati hanno deciso di limitare il loro impegno militare in Libia, scoprono gli investigatori italiani, Haftar cerca di procurarsi i droni in autonomia, rivolgendosi direttamente al produttore cinese.

Il sequestro di Gioia Tauro si rivela un’operazione anti frode compiuta alla perfezione, frutto di un elevato coordinamento internazionale in grado di sgominare un contrabbando di armi nella Libia orientale, a due passi dall’Italia e già pesantemente armata dai russi. Eppure, stranamente, per ben tre giorni regna il silenzio: nessuna conferenza stampa, nessun comunicato stampa, nessun lancio di agenzia. Le uniche notizie sulla vicenda  arrivano da un articolo del Corriere della Sera del 21 giugno. Il 30 giugno il Times rilancia la notizia e solo a quel punto la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Dogane sono costrette a fornire una versione ufficiale dei fatti. Il comunicato arriva due giorni dopo, il 2 luglio, ma aggiunge poco rispetto a quanto è già noto. Rivela che i container incriminati erano sei, ma non specifica il nome della nave. O delle navi, perché il Times parla anche di una seconda portacontainer partita dalla Cina e che la Guardia di Finanza “avrebbe atteso per un altro controllo al porto di Gioia Tauro lo scorso weekend” per “altri tre container sospetti a bordo della MSC Apolline”. Quest’ultima era partita dal porto cinese di Yangshan lo scorso primo maggio, proprio il giorno successivo alla partenza dell’MSC Arina. Un viaggio lungo, impossibile da modificare o interrompere per tentare di evitare che anche la Apolline fosse ispezionata e che il carico di armi venisse confiscato come già successo per la nave gemella dell’Arina.

Il sospetto che si tratti di due consegne connesse, con lo stesso destinatario, lo stesso porto di scalo e soprattutto entrambi con materiali bellici a bordo “fa pensare a qualcosa di più di una coincidenza”, dice al Foglio un analista che preferisce restare anonimo per motivi di sicurezza. “I controlli fatti dalle autorità italiane alle due portacontainer sono stati ordinati grazie alla prontezza dei servizi segreti americani che le hanno segnalate a Roma. L’Italia ha agito facendo il minimo sindacale per un paese alleato della Nato, con un’ispezione standard”. Poi ha mantenuto un certo riserbo sulla vicenda. Finché la storia non è arrivata alla stampa. Un basso profilo mediatico che sa di anomalia.

Il sistema di traffici illeciti fra Libia e Cina cela ancora diverse zone d’ombra. Dopo che la Russia ha scaricato un intero arsenale al porto di Tobruk, con navi militari russe che per mesi, alla luce del sole, hanno fatto la spola tra la Siria e la Libia, viene da chiedersi perché stavolta Haftar abbia scelto un metodo così rischioso per fare arrivare due droni. In un paese in cui criminalità e autorità ufficiali tendono a sovrapporsi, “un’ipotesi è che dietro ci sia un gruppo criminale che abbia tentato di fare affari con i cinesi per poi rivendere i droni a Haftar”, dice al Foglio un’altra fonte che preferisce restare anonima. Poi c’è il ruolo della Noc. La Libia non è nuova al contrabbando di greggio a prezzi ribassati. Chi supervisiona l’estrazione del petrolio nel paese è la National Oil Corporation (Noc), guidata da Farhat Omar Bengdara, un uomo di Haftar. Se è vero, come dichiarato dalla polizia canadese, che in ballo ci sono “milioni di barili” è difficile che una simile quantità di petrolio potesse essere contrabbandata senza che Haftar e la Noc ne sapessero nulla. Il Libyan Audit Bureau, l’istituzione che monitora le operazioni economiche nel paese, ha avviato un’indagine. Studiando il report riferito alle spese sostenute dallo stato libico nel 2022 ed elaborato dal Bureau, il Foglio ha potuto rintracciare un’operazione che risale al 30 agosto di quell’anno. Si tratta della vendita di  quasi un milione di barili a prezzo scontato – poco più di 90 dollari al barile rispetto a quello di mercato che invece superava i 101 dollari al barile – a beneficio della China International United Petroleum & Chemicals Co., Ltd, meglio nota come Unipec, braccio commerciale della Sinopec, la più grande compagnia di raffinazione asiatica. Mercoledì la Noc è stata costretta a emettere un comunicato con cui ha smentito ogni coinvolgimento nel traffico di petrolio verso la Cina.

Ma le coincidenze improbabili non finiscono qui e, di nuovo, è bene prestare attenzione alle date. Lo scorso 7 maggio la premier Giorgia Meloni incontra Haftar a Bengasi. Un vertice inedito per un leader occidentale, avvenuto nel feudo del generale libico. Si parla, fra le altre cose, di “intensificare gli sforzi in materia di contrasto al traffico di esseri umani”, come fa sapere Palazzo Chigi. Il patto fra Roma e Bengasi, che ha preso forma già un anno prima in occasione di una visita di Haftar in Italia, prevede dialogo e cooperazione reciproca in cambio di un blocco alle partenze dei migranti dai porti della Cirenaica, che fra il 2022 e il 2023 erano aumentate a dismisura. Fino al mese scorso, la rotta sembrava finalmente sigillata. Poi il 25 giugno, circa una settimana dopo il sequestro delle armi a Gioia Tauro, dal porto orientale di Tobruk salpa un peschereccio con a bordo 187 migranti. Sarà intercettato cinque giorni dopo a sud-est di Siracusa dalla nave umanitaria Humanity 1 con il coordinamento della Guardia costiera italiana. A bordo c’è un morto, i minori sono una ventina. Era esattamente da un anno che una nave carica di migranti non salpava da Tobruk, città da cui  non si parte senza un via libera di chi comanda, cioè di Saddam Haftar, il figlio del generale. Allora, era il 14 giugno del 2023, fu la volta del motopesca poi naufragato al largo della Grecia, a Pylos. Morirono oltre 600 persone.