Mimì, il vento sul mare dei Navigli

Il 12 maggio 1995 esattamente 29 anni fa lasciava questa vita terrena Mimì Berté. Vogliamo ricordarla degnamente attraverso un meraviglioso “ritratto” dello scrittore Gioacchino Criaco. 

Mimì, il vento sul mare dei Navigli

dalla pagina FB di Gioacchino Criaco

Non è mai stata Cate Blanchett che vince l’eclissi totale del cuore correndo fuori a cercare un bandito. La bandita era lei, fuorilegge, fuori ruolo, da sempre in rotta di collisione, il suo cruccio erano le longitudini, gli incroci astrali, i misteri insondabili, non i banali maschi, anche se stuoli di pervicaci parolieri ci hanno provato a ridimensionare la sua tensione. Il suo nemico era il nemico di quelli che sono diversi, sensibili, fragili, che hanno un passo lento dentro una società che va di fretta. Il suo tallone d’Achille era trafitto e trafitto migliaia di volte dalle frecce di un’umanità che tramonta dietro ai battiti meccanici di un cuore, lontanissimo dal suo che impazziva nella samba del triplice orizzonte di chi apre gli occhi su uno Stretto che solo dei senza sogno possono immaginare di imbrigliare dentro una cornice di cemento.

Mimì era il vento inconcepibile che nasce solo dall’incrocio di tre mari, luogo irripetibile lo Stretto: figlio unico del Tirreno, dello Jonio e del mare Meridionale che sale dall’Africa scavalcando la Sicilia. Ci condivisi un tavolo, di quelli lunghi, affollati, nati per caso, in cui i commensali siedono senza quasi conoscersi. Quei riti anarchici che Milano sapeva ancora celebrare prima del buio. Era maggio del ’94, esattamente un anno prima: la Primavera era ritrosa come adesso, si affacciava e poi spariva perché non si fidava più della città, ne intuiva il cambiamento che per chi c’era stato nella Milano dell’anarchia sarebbe stata la fine. Tutti stavano con tutti nonostante la tempesta impazzasse, impavidi e ingenui, nessuno parlava di soldi, di successo, nessuno usava l’io. Tutti avevano ancora dentro un’estate perenne che rideva in faccia al moralismo. I Navigli conservavano lo spirito di Leonardo e mescolavano vite inconciliabili perfettamente amalgamate. Si annusava la fine ma c’era la forza di esorcizzarla, almeno per un’altra luna. In un occhio il sorriso e nell’altro il pianto.

Mimì no, lei non versava lacrime giù nel kleenex perché lui era senza cuore, macho implacabile. Non era l’infelice delle parole che schiere di uomini scrivevano convinti di cucirgliele addosso. Lei era nelle sue parole, in quelle che scriveva da sola:

“Per te
che stai lottando,
per te
che stai perdendo
a te che rimani lì
sempre più solo.
a te che sei prigioniero qui
senza una vela che ti guidi in alto mare,
oh no,
non lasciarti andare”

Lanciava spade, cavallerizza della luce, correndo in soccorso a chi stava per soccombere. Le vicende d’amore c’entravano poco con la sua inquietudine, c’entrava pure poco la stronzaggine della gente, del suo ambiente di lavoro.
Era figlia di un mondo che guarda il mare da millenni, un mare che s’incanala nello Stretto, muta pelle, supera lo scudo della Sicilia e si fa aperto: accarezza solo per minacciare e colpire meglio.

Le Bagnarote erano l’avanguardia matriarcale, dominanti mai dominate, l’archetipo delle streghe da portare sul rogo, l’ossessione dell’uomo confuso, incompleto, in bilico fra sepoltura e resurrezione, attaccato ai capezzoli della Grande Madre Mediterranea, da Jung a Fellini, passando per Bernhard. Mimma Mimì Bertè lo Zefiro lo prendeva di spalle, si lasciava vestire dal vento che aveva l’alito di eucalipto e gelsomino: la brezza dell’inganno che rovina vite, epiche, nazioni, smette il proprio verso e ne assume quello contrario per alimentare sogni, follie, viaggi impossibili, per portare l’anima dentro tempeste invincibili.
Era l’onda, arrivata alla massima altezza possibile non poteva che smorzarsi.